C’è qualcosa di radicale nelle intenzioni di Giorgio Vicentini, in apparenza personaggio dolce ed equilibrato, sensibile ai dettagli come alle foglie che cadono o che spuntano sugli alberi in primavera, ma in realtà (nel fondo e all’essenza del progetto che lo riguarda e costituisce il più fondamentale trait d’union della sua vita e della sua riservatezza) concentrato in un estremismo volontaristico che lo impegna a puntare lo sguardo diritto al cuore di una questione sola, in fondo, attuale, dentro le cose dell’arte e dentro, soprattutto, alle sue esigenze profonde: quale sia, come si dia, come si manifesti il corpo della visione al di là di ogni possibile “contenuto”, al di là di ogni possibile oggetto. Sospetta infatti, Giorgio Vicentini, che qualcosa ci sia, ben prima dell’oggetto, che abbia a che fare con la sostanza stessa del vedere, di un vedere vuoto e primario; così come ci sia una significazione a monte della parola, alle spalle dell’identificazione e della definizione concreta e stabile del significanti, ai quali restiamo poi avvinghiati come a condizioni stesse del pensiero (che invece, parrebbe, li contiene tutti come qualcosa, come funzione, anche solo potenziale, sorta prima.Circa due secoli fa un pittore inglese, William Turner, alzò gli occhi al cielo con una convinzione che trascendeva la stessa esperienza e fisionomia teorica del romanticismo da cui il suo stesso gesto era ispirato. Quel cielo che l’artista cercava, sino a quel momento, era servito sempre e soltanto da sfondo di qualcosa, “negativo” dialettico rispetto al positivo della rappresentazione, vuoto dopo l’ultima quinta, apertura, non-luogo o, al limite, azzurro, colore diffuso, quindi situazione di comodo per calibrare una composizione in equilibrio precario. Ma per Turner non era questo il punto. Seguendo pur superficialmente l’evoluzione del suo linguaggio pittorico, si assiste ad un progressivo abbassamento della linea d’orizzonte che coincide con una perdita d’interesse per il paesaggio o, più radicalmente, per la terra, e con una scoperta dell’altra dimensione, di un vuoto informe e immobile che ai suoi occhi attenti si rivela improvvisamente pieno e cangiante, fremente di mobilità e di trasformazione, entità pienamente immersa nel tempo ma non priva di un fondamento, o di una latenza metafisica: quasi come se costituisse la “porta”, la soglia visiva e concettuale di un’altra dimensione, della trascendenza. Non cercava quindi Turner, o non soltanto, uno spazio sufficientemente ampio e dilatato da potervi ribaltare tutta intera la complessità dei propri sentimenti, della propria umanità, e nemmeno della natura in sé, nemmeno di Dio. Cercava piuttosto qualcosa di fenomenico e di noumenico insieme, un infinito visibile e pensabile (i due termini non sono sinonimi) che l’idea romantica di infinito non riesce ad esaurire e che assomiglia piuttosto alla versione della cosa proposta dal giovane Leopardi: silenzio e quiete sovraumana ma in forma di mare dove si può annegare e dove, addirittura, l’annegare è dolce. Perdita fondamentale di quel sé circostanziato e limitativo che talvolta viene chiamato personalità, principio provvisorio di differenziazione rispetto all’indistinto fluido dell’energia cosmica. In questo senso, e per quanto concerne questa ricerca, Turner addirittura non è romantico perché travalica l’oscuro e tormentato cupio dissolvi del primo Ottocento con una tensione verso dimensioni in cui dolore e gioia, luce e ombra, e persino morte e vita non hanno più senso. Diventano solo parole, e parole che non si dicono più. Turner però non era un filosofo e nemmeno un poeta e nemmeno un mistico; era un pittore. Il suo sguardo innalzato a capofitto verso il cielo diventa pittura, tessitura magmatica di velature e trasparenze che ancora appena appena accarezzano, per un modo quasi di circostanza, la rappresentazione, ma contemporaneamente, implicitamente ne stanno prendendo le distanze alla ricerca di un punto di contatto, di una superficie virtuale sospesa fra la materialità del colore e l’immaterialità del trascendente. Un luogo, in altre parole, intermedio fra il tempo e l’eternità.Può suonare superficiale o generico, ma Giorgio Vicentini non si confronta, in fondo con un problema troppo diverso da quello già intuito e in parte affrontato da Turner. Le esperienze del secolo appena terminato gli consentono di non preoccuparsi più affatto della valenza rappresentativa dell’atto pittorico, di chiarire, in altre parole, che cosa mai ci sia dipinto sulla tela, o se addirittura qualcosa ci sia al di là del colore, del segno, della pittura stessa. Anzi: specifichiamo sin da ora, e senza lasciare alcuna ambiguità residua in proposito, che altro non c’è. Ma il secolo appena trascorso è andato anche più in là, ben più in là di questo punto e Vicentini non lo ignora: la pittura stessa, invece che ineludibile termine ultimo dell’espressione, è divenuta scelta fra le altre, oggetto da considerare con adeguato distacco e adeguata freddezza. Dopo tante contaminazioni sarebbe allora insensato pensare alla pittura come un mondo a parte, un territorio dell’immagine autocefalo e nutrito solo dalle ceneri di se stesso come l’araba fenice. I termini dell’interferenza, fra pittura e modalità diverse di fare immagine, si addentrano spesso sino all’interno dell’esperienza di uno stesso artista. Ma non per questo è legittimo cadere nell’eccesso opposto, perdendo cioè di vista le qualità proprie, linguistiche, della pittura, le sue norme e le sue deviazioni che sono spesso l’essenza di svolte, continuità, approfondimenti e conseguimenti di un’esperienza scelta, voluta, coltivata lungamente. Giorgio Vicentini è attento a questi “dettagli” che costituiscono la specificità del suo lavoro attuale, li manipola con destrezza, li padroneggia con una competenza così consumata da non avere bisogno di esibirsi. Ma il suo sguardo e le sue mani vengono da lontano, da un altrove quasi obbligato per gli artisti della sua generazione che è il linguaggio concettuale. La pittura anzi, dice, è la “cura” adatta per un concettuale che tende a precipitare nel concettualismo, l’antidoto materiale a un processo di significazione che rischia di confondere l’aridità di un fraseggiare un po’ gratuito con l’immaterialità di un vuoto vero e indispensabile. In quanto il suo pensiero e il suo sguardo sono affondati ben bene nel fare e nel dire extrapittorico, Vicentini si è separato da Turner per accostarsi invece a James Turrell: e scoprire con lui come ogni colore altro non sia che un involucro corporeo predisposto per accogliere una certa, particolare forma della luce, sia il nome dato ad una determinata circostanza fisica ed ottica in cui la luce si manifesta. E come, dunque, il punto ormai non sia di dar corpo visivo alla manifattura, alla materia, ma alla luce in se, all’atto (platonico) che realizza il sostrato (materia) come forma visibile. E senza luce, chi mai vedrebbe un colore, un solo colore, qualsiasi colore ? E senza luce che ne è dell’oggetto, che ne è dell’immagine ? Non hanno alcuna realtà, essi, alcuna realtà per gli occhi. La luce è l’unica cosa reale, proprio ciò che non percepiamo mai come tale.
Dire luce, allora, è togliere di mezzo le circostanze, abitualissime, per cui l’immagine si fa quasi inevitabilmente prassi illusionistica, falso centro che attira e intrappola l’attenzione come uno specchietto per le allodole; dire luce è costituire spazio, prevedendone la connotazione indispensabile ma senza occluderlo al punto da negarlo all’esperienza; dire luce, infine, è invocare il tempo, ribadire la condizione fondamentale in cui e per cui la nostra percezione si dà e le cose trascorrono in noi e noi trascorriamo nelle cose; e in noi, delle cose, si forma coscienza. Luce, quindi, già in sé è fenomeno talmente importante e complessivo (nel lavoro di Turrell) da coincidere con il campo dell’esperienza possibile che pure non è mai, non può mai essere stabilita e preordinata a priori ma dipende dalla soggettività. E, inoltre, luce come tempo celeste, discorso degli astri protratto attraverso l’universo, sostrato e condizione dell’essere-nel-tempo. Giorgio Vicentini questa posizione estrema la riflette con intensità ma senza scivolare in un’identificazione che si risolverebbe soltanto in un momento di pura, semplice, deprecabile debolezza. Il creare le condizioni perché lo sguardo possa concentrarsi sulla rivelazione della luce in sé, la luce vuota, senza oggetto, nel suo lavoro è impegno tutto laico, che prescinde da tentazioni mistiche e, forse proprio per questa stessa ragione, non perde di vista, non abdica alla materia, a trattarla, gestirla, persino costruirvi uno spazio. Non a caso, il suo lavoro recente, questo suo lavoro che è appropriato chiamare pittura ma che è necessario anche chiamare installazione, sfugge alla superficie, si installa sul rilievo, si organizza in un insieme di oggetti dislocati sulle pareti come sul piano del pavimento, mattoni, quasi, mattoncini ben solidi, dagli angoli morbidi e smussati perché il corpo prevalga o addirittura cancelli il contorno, la sostanza cancelli il disegno. Il grande polittico Dodecaedro 2000 è addirittura composto da ben 60 elementi non concepiti per completarsi e definirsi l’uno con l’altro, sono tutti autonomi ma tutti necessari per il conseguimento di una forma “architettonica” compiuta. Vicentini vuole “costruire” con la pittura come un architetto sapendo benissimo che non farlo non è possibile. Al tempo stesso questo suo omphalos fortemente concentrico, polo magnetico che risucchia logiche e desideri verso il proprio impossibile punto mediano, sembra quasi un omaggio al celebre Roden Crater di Turrell, uno dei progetti più ambiziosi di land art mai concepiti, sconcertante macchina megalitica per contemplare il cielo nelle sue infinite luci; mentre l’impercorribile “piazza” di Vicentini, nella sua allusiva convessità, sembra fatta apposta per centrarsi sulla terra, ribaltare il “fuori” verso il “dentro”. E poi dappertutto, concentrata e silenziosa, flessuosa e onnipresente, pesante e leggerissima questa pittura, che non appartiene più né all’astrazione né alla figurazione, non ha più debiti con le correnti neo-astratte degli anni Ottanta, si è affrancata da riduttive e noiosissime classificazioni obbligate fra compartimenti caldi o freddi, fra valenze aniconiche e azzeramenti forzati e pretenziosi, fra nostalgie da colorfield e inquietudini da environmental art. C’è un silenzio, appunto, in queste superfici spalmate, dominate, protette, rese minimali dopo l’eccesso di ricchezza e grazie all’eccesso di ricchezza che in loro è contenuto, un silenzio che non ha più bisogno di giustificazioni, che non si appella più per individuare la propria ragion d’essere alle parafrasi critiche e alle circostanze del gusto, nei suoi corsi e ricorsi, ma appare così, semplicemente, come un coronamento maturo di un lungo e consapevole percorso nei territori dell’immagine. Cosa c’entra Turrell, cosa c’entra Turner ? La luce, anche qui, non il cielo dipinto, ma ciò che vi sta dietro, cioè la pittura stessa, cioè un colore imbevuto di luminosità, di spazio imploso, segreto e raccolto, e poi diminuito, rallentato, riportato a terra. Vicentini, oggi, diffida della bellezza, diffida dello splendore. Fare qualcosa di bello è il più triviale inganno, la trappola più facile e tuttavia insidiosa che attende al varco un’intelligenza e un talento come il suo. Allora, niente bellezza. La scelta del colore deve misurarsi con un’illuminazione negata, una lampada spenta, una patinatura cancellata, una visione offuscata, ridotta, poco a poco, attraverso il lavoro armato, il lavoro consapevole, sospinto fino al punto da ottenere un colore antico, tacito di un silenzio recuperato, ristabilito eliminando uno dopo l’altro ogni rumore. E’ una pittura di cielo quella di Giorgio Vicentini (come quella di Turner), ma una pittura di cielo fatta con la terra. Anzi: il dispregio, il distacco per quell’illusione seduttiva, per quel mettersi in mostra alla ricerca di ammirazione per la propria raffinatezza, la propria unicità, il proprio valore, i propri veli e le proprie nudità che è quasi dimensione consustanziale alla bella pittura; tutto questo Vicentini lo teme al punto che, trovandosi davanti la propria creatura finita e attraente, perfetta come una Pandora rinnovata e temibile ancora, temibile per intero, non esita a sfregiarla, a inciderne duramente e sgarbatamente la superficie. Ottenendo così il doppio risultato di ribadirne la natura materiale e di prenderne opportune distanze; le distanze dovute a un pezzo di legno.I colori di Giorgio Vicentini oggi, quindi, sono i colori della sorvegliatezza, colori che non fanno spettacolo, ritirati fra quinte accessibili solo ad un’attenzione concentrata quanto quella dell’artista stesso. Così, soltanto così, è possibile esplorare, godere e catturare, per esempio, l’intima, intrinseca variabilità di ogni tono, di ogni sfumatura e ogni pennellata, la reattività straordinaria alle condizioni di luce che questi quadri presentano, l’abito severo e quasi modesto che li protegge e in un certo senso alla prima impressione li occulta, ma per contro la sostanza quasi minerale, metallica, reattiva che essi manifestano se colpiti da raggi perentori e diretti. E poi: la ricchezza cangiante di un’internità che pure, a ben vedere, non c’è perché in realtà Giorgio Vicentini estrae le sue superfici da una dimensione all-over che potrebbe ben dispiegarsi dappertutto, datità orizzontale e bidimensionale da cui ogni singolo quadro sembra frammento strappato a forza per essere meglio dominabile e meglio dominato, abbracciato dall’artista con le braccia ma senza, per questo, configurarsi come un discorso completo ed esaurito. Perché inesauribile è lo spazio latente, perché l’uno dall’altro sembrano generarsi, propagarsi da se stessi questi lavori, anche se ciascuna spicca sul tessuto virtuale di questa continuità come un climax, un’icona tenuta tutta dentro le braccia e accarezzata mille e mille e mille volte quasi per levigarla meglio, per coltivarla meglio, per qualificarla meglio. Tutto qua, quello che si conosce, che Giorgio Vicentini conosce, oceani di luce trattenuti nello spazio di una piccola finestra, campiture di seta vestite d’ombra, increspature di materia pugnalate a fondo perché l’altro possa guardarsene, possa non convincersi fino in fondo delle loro chimere; spazi costruiti con l’accuratezza di un cesellatore ma abitabili solo allo sguardo, il corpo fuori, il corpo riconsegnato alla terra, alla natura e alla materia e, in questo, di nuovo simile, di nuovo sposo e parente alle superfici di pittura…. Tutto qua, quello che Giorgio Vicentini conosce.