Grande respiro pensile, soprattutto. Ma anche Sonde, Appartenere, Terre Emerse, tra le oere qui esposte. E in un immediato passato Grande Endogeno, e ancora, ripetutamente Sonde.
Perché siffatto richiamo a quanto è interno, anzi intimo, corporeo addirittura? Vien naturale chiederselo in una pittura che a un primo sguardo si offre quasi in una proclamata inespressività, chiusa com'è ermeticamente, entro una soglia minimale di percettibilità, per i toni cupi, e per qual conseguente uniformità, e indecifrabilità.
Cero si tratta di una spia di qualcosa che, pur nella pittura, alla pittura non è riducibile, di un avvertimento a non accostare, e intendere, questi quadri come prove di un esclusivo, o anche preminente, intento analitico. Come invece la pittura-pittura, o nuova pittura, di un ventennio fa.
E neppure con quelle aperture-oltre l'attestamento formalistico sul dipingere in quanto tale-che l'analitica dei procedimenti "dell'arte" in un certo senso travalica nel proporsi con propositi ideologici, come appunto nei primi anni Settanta, nei lavori, e nelle connesse teorizzazioni, attorno a "Support-surface" (e perché no, già nei secondi anni Quaranta, nelle posizioni di "Forma 1".
Del tutto fuorviante, infatti sarebbe il decifrare i quadri di Giorgio Vicentini in chiave di un azzeramento formale, con la perdita, o l'annegamento, della struttura, e delle valenze medesime del colore, in un indistinto continuum che solo le sagomature e le articolazioni dei rapporti tra le varie parti dei polittici che l'artista abitualmente ci offre in qualche modo spezzano e differenziano. Un contatto più approfondito, un'attenzione appuntata con maggior insistenza sulle scure superfici, ed anche una ricerca di visuali privilegiate, e di illuminazione mirata, rivela presto qualcosa di ben diversamente complesso. Quanto appariva come impenetrabile, e quasi sigillato in una sua inaccostabile autosufficienza, va animandosi, mostrando corrugamenti, tracce, inquieti bagliori che lasciano intravedere, o talora solo intuire, una vita latente.
Si è così indotti ad andar oltre un esame frettoloso, a contrastare l'impressione iniziale, e, in un certo senso, a ripercorrere a ritroso il procedimento dell'artista. Che prima, sì, programma con lucidità progettuale l'opera, nelle dimensioni e nei nessi strutturali, nei singoli pannelli e nelle loro connessioni, trattandosi appunto spesso, come s'è già detto, di lavori composti da più pezzi. Ma che poi aggredisce il supporto (pur esso definito nelle proporzioni e nella sagomatura. quindi non casuale) con una gestualità diretta, eccitata, con l'estrinsecazione di pulsioni intense, secondando un'urgenza liberatoria, sfogandosi quasi. E che solo da ultimo, dopo aver scaricato la tensione espressiva, riprende i pennelli per accanirsi a coprire il piano, strato dopo strato, e con colori gradualmente più saturi.
Tutt’altro perciò, da un freddo proporsi di problemi solo metalinguistici. E invece un fare in presa diretta con l'emotività, assecondata e poi controllata, im una dialettica tra espressione e verifica: mentale e formale, e quindi pure linguistica. Anzi prevalentemente linguistica, a certo punto, giacché il risultato finale deriva da calcolati propositi inerenti al come dire, oltre che tuttavia al "cosa". Anche in connessione, ciò, col senso di conquistare un equilibrio dopo aver allentato i freni della coscienza: che non è rimozione, invece di ripresa cosciente, e di giudizio, di quanto s'era estrinsecato ad un livello di allentamento (intenzionale, va ribadito) dei freni inibitori. Il percorso seguito nella prima fase resta presente a Vicentini in questo secondo tempo. Egli ha memorizzato quanto prima era avvenuto, ed era rimasto impresso nell'opera. Per cui copre quello che vuole, e solo quello, tenendo conto anche di ciò che progressivamente lungo la lavorazione, è ormai scomparso. Esemplare, al proposito, una delle opere presentate in questa mostra "180 gradi", nella quale tale coesistere nell'esito finale di istantaneità e di dipanata temporalità è raggiunto senza sovrapposizioni dichiarative. In quel proporsi in orizzontale dell'angolo piatto è in realtà icasticamente patente la successione, il divenire, non annullati, ma offerti in una compressa simultaneità, dove il tutto non coarta il particolare. Come del resto in un altro lavoro, "Camion", in cui tuttavia la sintesi va colta nella somma delle tavole, che singolarmente fissano, come in un campionario (e quindi secondo modi più dichiarativi), situazioni differenziate. E ancora tale popolarità è ravvisabile nel ricordato "Grande respiro pensile", le cui due sezioni sono rispettivamente intitolate Inspirare e Espirare, con un ritmo, qui esplicitamente fisico. Perché il tempo non è da Vicentini solo postulato in termini di astratta, convenzionale misurazione, ma un coinvolgimento sinestetico. Ed ecco le "Sonde", che da anni ormai accompagnano l'autore, e ovviamente non a caso, ritagliate come sono sulla sua statura medesima, e quindi in un certo senso "autobiografiche".
D'un autobiografismo, però, non insistito come mai in Vicentini, e per gran parte affidato al contatto protratto con quello che sarà il prodotto. Con valenze, una volta di più, temporali, nel piano lungamente lavorato, attraverso ripetuti passaggi di pigmenti, con pertinace aggiungere e coprire, a dar spessore e a trasformare, la pelle in carne, in soglia: che rimanda ad un al di là, ad un al di sotto, ma pure ad un al di qua, ad un di sopra. Per l'aggetto dei supporti, anche per il loro proporsi tridimensionale, che con la bidimensionalità della superficie dialoga. E sono assottigliamenti talora sensibili, con forme a cuneo, talvolta invece appena avvertibili, in minuti scarti che modulano, o scandiscono, o semplicemente articolano il piano, anche nel gioco tra porzioni del supporto a nido d'ape lasciate visibili e quanto è elaboratamente dipinto.
Col che Vicentini si inserisce con personalissimi accenti in una situazione tutt'altro che largamente frequentata, ma neppure esclusiva, come già m'è capitato qualche mese fa di evidenziare in una mostra che sin dal titolo "On-Off" suggeritomi proprio da Vicentini - voleva proporre qualche esempio - tra essi appunto quello del nostro pittore - di artisti giovani che rifiutando insieme l'espressività incontrollata e lo stallo entro confini d'una riduttiva "specificità" saggiavano questo "sopra-fuori", che può essere anche - e lo è in Vicentini - un puntare al "dentro-fuori". Oltre osservavo, latitudini minimaliste o esclusivamente, volta a volta, analitiche, oggettuali, geometriche, sensibilistiche, ambientali o altro. E piuttosto all'insegna del coagire di significanza e di riduttivismo, di gusto per il fare e di inclinazione al pensare, di risoluzione nella prassi e di attenzione alla teoria, in una congiunzione e conciliazione dei contrari: cioè al di là di fedi contrapposte in certezze postulate come esclusive e incontaminabili.
Ed è credo, il modo oggi migliore, l'unico forse, per ribadire i valori della ragione senza farne un feticcio: cioè in sostanza, senza ribaltarli nel contrario, senza
rendere astratto qualcosa che è valido, ha un senso se incarnato nella varietà, nella complessità nelle contraddizioni anche, che sono dell'uomo, e quindi dell'artista. Dove la fantasia, l'invenzione, e con esse l'emozione, la partecipazione affettiva non risultano coartate; e dove per converso il progetto si incarna intimamente nella vita. Col risultato d'una unità-non solo di pittura ma nemmeno unicamente d'interazione esistenziale-che è quella che soprattutto caratterizza l'opera di Vicentini.