In una recente intervista Giorgio Vicentini ha affermato che “nel lavoro di pittore non si può parlare di ‘routine’ ma di ‘continuum’: non c’è mai tregua, ogni istante è in continua tensione. Migliorarsi è l’unica speranza che si semina nell’ignoto”.
Alla consapevolezza di questa dimensione appartiene anche la fantasia progettuale con cui Vicentini ha costruito ogni mostra, decidendo di esporre cicli di ricerca dedicati a specifici temi d’immaginazione, attraversamenti flessibili dell’identità del colore e delle sue improvvise apparizioni: dentro e oltre i limiti mutevoli della superficie.
Se la propensione dell’artista è di privilegiare costellazioni di opere che raccontano le avventure del suo ininterrotto ricercare, nel caso di questa mostra il percorso è immaginato come una mappa policentrica che si dirama senza vincoli, dal recente passato al presente in atto (2013-2017).
Il duplice versante dello spazio espositivo è interpretato con differenti ritmi spaziali, giocando su nuclei di ricerca in apparenza distinti, in realtà simultanei e dotati di un nuovo senso unitario, una specie di ebbrezza ambientale totale.
In questo caso, si tratta di sperimentare nuovi contrappunti spaziali attraverso calcolate connessioni, sintesi equilibrata tra valenze segniche e sonorità cromatiche, entrambe sospinte dalle vibrazioni avvolgenti della pittura.
Vicentini si considera autore e spettatore della sua visione, dispone una serie di opere che dialogano apertamente tra di loro, allestisce le pareti alternando differenti tecniche e modulando molteplici formati, dal singolo elemento all’aggregazione variabile dei corpi cromatici.
Inoltre, l’artista valuta pesi e contrappesi, mette a confronto istanti fluidi e atmosfere immerse nelle penombre della memoria, da un lato la velocità d’esecuzione e, dall’altro, la sedimentazione alchemica della materia attiva, consapevole del fatto che la dinamica totale deve restituire il magnetismo delle forme in campo, l’inizio e la fine del loro alterno fluire.
La pittura vive di attrazioni e dispersioni, respira venti contrapposti che disorientano lo sguardo accettando anche il rischio di smarrirsi nella vastità del visibile, oltre il determinato perimetro di ogni singola opera.
Gli andamenti curvilinei sono lembi di pensiero che gravitano nella certezza del vuoto, catturando movenze che si incastrano e si liberano da ogni regola programmatica, fisiche pulsazioni in sintonia con lo sguardo interiore.
Sulla parete più ampia della cosiddetta orangerie sono allineati con ritmo regolare gli “appunti di volo”, una serie di dittici dove costante è la contrapposizione tra il tagliente e insidioso volteggiare del colore e la sua luminosa oscurità, sfiorata da minimi segmenti in sospensione, con nette fasce geometriche, talvolta oblique, timbriche, oppure grigie, in prevalenza nere.
Il dialogo tra la parte liscia e quella opaca suggerisce un doppio clima visivo che corrisponde alle fonti della luce e dell’ombra, l’uno affidato allo scivolamento gestuale del pigmento su fondo bianco, e l’altro trattenuto all’interno del graduale disgregarsi della materia, al limite del visibile.
L’idea di “volo” è legata alla metafora dell’aria attraversata da opposte tensioni, luogo di congiunzione tra la rarefatta energia del vuoto e la velata profondità delle ombre, palpabile irradiazione di un’ansia immaginativa dove il pensiero vaga senza precisa meta, sfuggendo eccentrico al peso di gravità.
In realtà, il desiderio del volo attraversa tutta l’opera di Vicentini, è il farsi stesso della pittura come modo di sollecitare oltremisura i suoi elementi primari, non solo desiderio di varcare i confini ma di essere, essa stessa, limite instabile, soglia visionaria, trasfigurata dalle movenze del proprio divenire.
L’allusione al nomadismo flessibile delle forme favorisce l’atto di catturare le forze imponderabili, di prenderle al volo con movimenti protesi oltre le cangianze del colore, con spinte laterali e trasversali, espansive e balenanti.
Nella parete attigua, si delinea in senso longitudinale “costruire l’orizzonte”, polittico composto da barre di alluminio dipinte con striature scure e discontinue, disposte in modo parallelo con alterne fuoriuscite laterali, come una partitura viscerale che fluisce tacita e sommessa, ma con ferrea presenza.
D’altro lato, disseminata su una parete di non grande dimensione sta un’ampia teoria di “jamais”, piccole tavole di meditazione interiore, impercettibili mutazioni dentro il palpito segreto delle icone, tra sfumature e silenzi d’ombra. Ad esse si accompagnano alcune opere di un recente ciclo, “Cattura”, ulteriore affermazione della frenesia inventiva del dipingere, forme taglienti e assottigliate galleggiano nel nero come schegge in cerca di ancoraggio, le punte ricurve per agganciare spazi impossibili con anomale e scattanti distorsioni. Vicentini viaggia in bilico tra poli opposti alimentando il gioco dei contrasti di cui è sempre inesausto indagatore, grazie alla capacità di padroneggiare la materia a tutto campo e, nel contempo, di sublimarla concettualmente attraverso l’astrazione, dalla modulazione geometrica alla fluida insorgenza dell’informe.
La natura dei materiali e il particolare carattere delle tecniche adottate non è di poco conto in questo costante processo generativo, mezzi antichi e nuovi materiali si fondono nella ricerca di un’inconfondibile metamorfosi espressiva.
Lo stupore è vedere tramutate in immagini rapinose sia le materie cromatiche (acrilici, inchiostri, smalti, cera d’api), sia i diversi supporti (tele, carte, tavole, sicofoil, metalli), trattati con sensibile perizia e mirabile cura esecutiva.
Altrettanto stupore si avverte in una tavola appartenente al ciclo “Aria concreta”, esempio di pura emanazione sensoriale che si incontra anche in un altro punto della mostra, pittura come apparizione di profonde tenebre, ermetico divenire della luce che trapela nell’oscuro grembo delle forme.
Altre opere, seppure disposte isolatamente, evocano i sogni persistenti dell’artista, il divagare imprendibile delle pennellate, il fervore chiaroscurale dei fondi, la calibrata sospensione tra l’interno e l’esterno, o l’impassibile convergere del bianco e del nero attraverso le gradazioni del grigio.
Talvolta il nero avanza e il bianco retroagisce, altrove la superficie accoglie profili essenziali ma anche stratificazioni condensate in brevi nuclei, oppure minime zone materiche e dilatate trasparenze, mentre i neri opachi sono ottenuti carteggiando la superficie dipinta fino a eliminare ogni eccedenza.
Si comprende, e Vicentini in qualche modo lo confessa, che certi effetti nascono dalle occorrenze interne del fare pittura, alcune opere sembrano storie scritte su lavagna, altre nascono da stratagemmi indecifrabili, come nel caso dove appare misterioso l’adagiarsi del bianco e del grigio al di là del nero.
Allo spettatore è richiesto un esercizio di lettura che tenga conto non solo dei valori compositivi ma anche dello sforzo psicofisico che l’artista sostiene per verificare il colloquio con la materia, le mutazioni dal progetto all’opera.
Sul fronte opposto, nelle stanze a piano terra della dimora di Cristina Sissa, sono collocati dipinti di impatto differente, dall’incanto geometrico di “un solo segreto” allo scatto imprevedibile di “flessibilità di un figlio unico”.
A questo punto, entrano in gioco anche opere del ciclo “colore crudo”, un’originale sperimentazione dove l’uso dei polifoil sovrapposti permette all’artista di plasmare la materia premendo sulla pellicola per ottenere forme legate all’evento del loro irreversibile permutare, cangiare, trascolorare.
L’immagine si sdoppia, slitta dai contorni, si anima d’aria e respira di luce, permettendo al colore di scivolare nel miraggio del vuoto, di pulsare attraverso la trasparenza del doppio piano d’azione, gravitando come al solito nel bianco alla ricerca di imprevedibili mutazioni della pasta materica.
Per altri tramiti, immaginate come creature che aleggiano su piccole mensole sono gli “Alias”, il colore scivola sulle piegature di polifoil captando brividi d’aria, lievi scie trasparenti, aliti di luce sospinti dal vento dell’emozione.
Altre suggestioni abitano lo spazio della mostra con alterne misure, dal polittico quadrangolare denominato Pic all’immagine “impassibile” che sembra avvolta nella propria insondabile segretezza. Senza dimenticare altri suggerimenti spaziali dove la pittura dialoga con sè stessa, assume toni melanconici, si lascia andare a liriche risonanze ma anche a nuove tentazioni di svelare l’ignoto cercando di fare chiarezza nell’oscurità.
Disseminato in ogni dove, il colore cattura l’energia stessa dell’atto pittorico, esalta l’azione del gesto che si muove come un compasso trasformando ogni fissità compositiva in forma fluttuante, instabile e feroce, volta per volta capace di tuffarsi nella profondità dell’essere per afferrare altri baricentri.
Del resto, la pittura di Vicentini non insegue novità ma continui avvitamenti lungo i percorsi ambivalenti del suo affiorare, è desiderio di vedere l’invisibile e di avventurarsi verso le soglie dell’oltre, con quella necessaria follia che permette di captare ciò che sta oltre l’orizzonte di ogni possibile orizzonte.