Giorgio Vicentini. Assalto e difesa
Si direbbe una messa in scena quella di Vicentini, e lo è. Il sogno di una pittura che si faccia concreta drama; superando l'idea del quadro per diventare teatro. Grande sogno di Giorgio, raccontare attraverso le forme semoventi e articolate del palcoscenico; tramite spazi che inventino altri spazi che raccontino altre vicende ancora. E facciano collidere orizzonti e destini alla stregua di un continuum sinestetico. Strano sogno davvero per un certosino dell'impalpabile e delle "infinite ragioni che furono mai in isperienza".
L'inizio e la fine della mostra contengono i termini di un viaggio (quasi) iniziatico, di un corpo a corpo, con le attese di un mestiere che è avvertito come una necessità interna; e come tale è matter di sostanza organica, fetale, emozionale, letale. Il progetto estetico, per Vicentini, non è disgiunto dal come si è e dal come si agisce tutti i giorni.
Vicentini muove e va a castelllo. Per occuparlo. Per farlo si prepara come per andare ad un colloquio cruciale; ad un incontro con una donna; al duello per difendere il proprio barlume di ragionevolezza.
Cioè investendo tutto quello che è investibile. Che è una sorta di mestiere delle armi, la pittura di Giorgio. E il suo armamentario non è solo il bagaglio e i trucchi di chi da anni con lievitante inflessibilità sta interrogando e compulsando i trasalimenti del colore per captarne la genesi, l'irrompere di una veronica, traghettandone poi in una superficie setosa e umbratile, e negli ultimi tempi metallica, il senso; ma anche il coraggio - piccolo, per carità, stiamo parlando pur sempre di pittura - le strategie, le tecniche di avanzamento e di ritirata come dentro ad una trincea.
Diventare, ad una certa ora del proprio destino, padroni di qualche cosa, mettere un punto dopo la fatica dell'ascesa. Possedere anche solo una maniera di essere e dunque di esprimersi, fare sentire il peso corporeo dell'esisterci con la coscienza. I Castelli in aria sanno di questa pretesa corporeità, prova documentaria di una conquista lenta ma insindacabile. Sono strutture uguali, in auto sospensione, quasi non avessero necessità di nulla se non l'ostentarsi in quelle forti sagomature di ferro su cui le derive cromatiche emanano regali frequenze emotive.
Le Carte sono, in termini di sinestesia, le finestre tramite cui riprendere con tutti i propri sensi contatto con un esterno. E sono brecce ossessive, cadenzate quasi che ognuna di loro volesse esprimere una vibrazione differente, una taglio di sguardo diverso, un orizzonte sempre mutabile, la proiezione di un occhio mobile; vigile e al tempo visionario.
Nel gioco, tra il conciliarsi e il fuggirsi, ci sono anche le stanze dei riti sociali; della relazione di senso tra sé e gli altri, tra il vocabolario degli iniziati e la sua diffusione. Come in una rabdomantica didattica, la Stanza dei 12 Mappamondi diventa lo spazio dell'interazione in lievitante fantasia e dell'immaginazione; del dire per gioco ma con serietà. Immaginandosi al cospetto di un uditorio harrypotteriano - nel senso più traslato possibile di facoltà immaginifiche e emozionali totalmente disposte ad una scarica impalpabile e non codificabile - Giorgio inscena il luogo dell'apprendimento. Che è come insegnare il gioco sotto cui esistono regole come leggi naturali.
In questo atlante dell'anima che è il suo percorso, il gioco dei mappamondi dipinti afferra come per incanto e nella maniera più innocua possibile il grande dramma e la grande incognita. L'apparire e lo scomparire della superficie rotonda, l'emergere epifanico di un nome, di un lembo di terra o di mare, il tutto con i mezzi poveri della pittura e della luce interna ai globi, ha in sé qualcosa di enigmatico e terribile; ha dentro tutto il senso di precarietà, della seriosa gravità di una geopolitica, per non dire di una storia naturale, che tuttora fatica a non sconcertarci.
Il Grande libro di Non ho parole è l'altra faccia della coscienza significante, del suo prendere possesso degli spazi che siamo: l'incanto - dentro un luogo antico che introiettiamo come fabrica di cultura - della parola. Che non c'è naturalmente, non è trascrivibile in questa machina, dove le pagine sono l'ennesima estensione della pittura che si fa linguaggio autonomo, autosignificante, fatto di sussulti nascosti e di alfabeti criptati.
Cultura della parola ineffabile che diventa cultura del lavoro nella piazza del Dodecaedro: una struttura composita che ha in sé i segni di una sapienza artigianale antica, la pazienza degli operai musivi o del piastrelliere che nelle fughe trova un ordito così da rivelare una traccia di senso, orbo della visione d'insieme se non a fatica completata.
Il pregio è muoversi tra stanze ipnotiche senza che si manifesti nessun sostanziale mutamento d'immagine; senza essere disturbati da alcuna parola opprimente, da nessun'apparente rivoluzione; la pittura di Giorgio abita questi spazi diversi e diversamente codificati senza che nulla muti le sue ragioni espressive. Cambiando d'abito o ingrigendo, in viaggio o stando fermi, la pelle che siamo e ciò che le nostre mani disegnano nell'aria è il medesimo. Così è il nostro piccolo movimento attraverso la definizione di questo perimetro fisico e mentale che è il castelllo e la sua messa in scena animata. La materia pittorica di queste opere è ferma, sembra. Può modificarsi l'apparato retorico che le supporta, la costruzione cui partecipano come tasselli Eppure no.
In nuce identica a se stessa, la sua pittura è in realtà un preciso presidio dove tutta la massa emotiva di cui siamo composti collassa in un altro/altrove, dove ogni "lacrimazione sotterranea" di colore, ogni lieve traccia del pennello di pudica ascendenza fontaniana, ogni disassamento di onde luminose, è l'annuncio di un miraggio nuovo, un odore che sopraggiunge, un palpito che non c'era, un tempo che si dirada o rapprende come tante aritmie inconfessabili al palesarsi dell'inatteso. Così è la zona di sicurezza, l'Area protetta, carne della propria carne e sangue da sangue, lo scrigno custodito nel viaggio, il luogo di ogni ritorno. La vera semina.
Dietro, davanti, prima, dopo… le eterne scaramucce, gli assalti e le difese, i giochi di potere, perdite di identità, tutti gli andirivieni superflui, le manfrine, a castelllo come dappertutto.
Bisogna resistere, Giorgio, soprattutto con la pittura, lusso da monaci.