Con Giorgio Vicentini (Varese, 1951; vive e lavora a Induno Olona) l’arte “concettuale” è alla portata di tutti. E questo è un grandissimo traguardo, se pensiamo a quanto spesso le espressioni artistiche ”ostili”, “difficili”, allontanino una parte più o meno cospicua di pubblico (e acquirenti) potenziali.
Del resto, la stessa espressione “concettuale” applicata al fare artistico di Giorgio Vicentini suona stretta: un po’ tutti sappiamo quale tipo di espressività si palesi dietro questa parola, fra tele monocrome di un colore apparentemente – sottolineiamo: apparentemente – unico e tele su cui i colori ci sono, ma non si accompagnano a quelle figure che ci sono familiari.
Per non parlare poi della pratica che ha dato il nome alla corrente artistica, alla scuola di pensiero, quando Joseph Kosuth realizzò la famosa installazione composta da una sedia appoggiata a una parete con su la foto in b/n e a grandezza naturale della stessa sedia e vicino una riproduzione ingrandita della definizione di sedia tratta dal vocabolario. Da lì il diluvio?
Capirete anche voi che di fronte ai valori segnici e coloristici di Vicentini siamo atterrati su un altro pianeta. Molto amichevole. La sua produzione artistica è affabile, nel senso che è piena di parole, di narrazione, di descrizione. La vediamo, ma andando oltre il visibile, oltre la sua stessa datità sensibile.
Da un lato è la trasposizione nel linguaggio visuale del visibile e l’invisibile (Le visible et l’invisible) tematizzato da Maurice Merleau-Ponty nel 1969: la percezione dell’opera d’arte è, più o meno misticamente, un’apertura al “mondo della vita” (i filosofi tedeschi usano questo termine, Lebenswelt).
E dall’altro è la sinestesia di più esperienze, nel senso che il vedere un’opera di Vicentini non fa muovere solo gli occhi ma anche l’immaginazione, cioè quella facoltà che ci fa pensare al di là della narrazione cui siamo abituati con la pittura figurativa.
La sua produzione d’arte riflette parecchio quell’universo di discorso che grosso modo possiamo ricondurre all’ambito segnico in senso lato, ma non è pittura segnica, o meglio non si esaurisce soltanto lì.
Certo a rigore ha molto dell’Informale e genera una sorta di alfabeto narrativo, ma questo alfabeto narrativo ha in realtà pochi vincoli con quell’esperienza pittorica storicamente determinata: è in realtà molto personale e incasellare l’opera di Vicentini può essere utile più che altro per inquadrarla, ammesso e non concesso che vi sia il bisogno di categorizzare un’esperienza creativa.
Il segno e il colore sono le direttive, che non si esauriscono nella bidimensionalità del film pittorico a parete, ma debordano nella terza dimensione: quelle due direttive, il segno e il colore, sono le strade ideali su cui si sviluppa l’alfabeto, la narrazione visiva di Giorgio Vicentini.
E hanno dei ben precisi e concreti riferimenti: il perimetro e la superficie, che danno luogo a un “metalinguaggio” tutto estetico, che definisce un altro linguaggio, in questo caso il nostro linguaggio naturale.
Più semplicemente, produce una narrazione immaginativa. E occasiona la sensazione di movimento, dinamismo: la sua pittura non è mai “ferma”, anche quando è fissata alla famosa parete.
Si provi questa sinestesia guardando Matematica dell’onda, Incontriamoci dove inizia l’orizzonte, Il tuono delle mani: aperture a una narrazione fin dal titolo (non pensate a un film di Godard? Non pensate a un’opera letteraria di Yourcenar?), dove si mette in moto quel meccanismo della fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty da cui eravamo partiti. Detta con uno slogan rigorosamente non filosofico – e quindi niente affatto noioso: “oltre la percezione c’è di più”.
E’ ciò che ho toccato con mano visitando il suo studio a Induno Olona e ascoltando le vive parole di Vicentini di fronte a un’opera che prenderemo come epitome, come rimando esplicativo, come parte per il tutto: Ribelli atlantici, dove il perimetro, maschile, circumnaviga la superficie, femminile, senza mai – ci verrebbe da dire – penetrarla. Tu chiamalo metalinguaggio se vuoi.
Un altro grande vantaggio della produzione d’arte di Vicentini, oltre alla sua estrema affabilità che ce la rende subito “amica”, è che è bella: vi par poco? Dire che un’opera d’arte è bella suona oggi come dire un vuoto truismo, una cosa banalmente vera.
Ma provate a ….immaginare (appunto) cosa vediamo in gran massa nelle fiere d’arte: è quello che Angelo Crespi ha chiamato “nostalgia della bellezza”.
E, sia detto una volta per tutte, il brutto nell’arte ci ha stancato. Con la produzione d’arte di Giorgio Vicentini, invece, questa…brutta esperienza non càpita, anzi. Provare per credere.