A valutarla nell’intera sostanza dei suoi percorsi, la ricerca di Giorgio Vicentini è un gioco permutativo che guarda la superficie pittorica da ogni lato, sottoponendo il corpo del colore a differenti oscillazioni dello spazio.
Con la passione di chi organizza la visione per cicli ininterrotti di lavoro, l’artista è convinto dell’inarrivabile attualità del dipingere, disciplina imprevedibile che tiene a sé legati i fili visibili del progetto e le profondità invisibili del fare, antica questione dell’identità pratico-teorica dell’arte.
I sensi del colore corrispondono all’energia espansiva del pensiero che insegue vertigini interiori e sguardi dal di fuori, allentando il controllo delle forme tra continui avvistamenti, veli di luce e oscurità immanenti.
Nel corso dei decenni vissuti con inconfondibile inquietudine, Vicentini ha seguito il divenire delle immagini con desiderio di viaggiare nell’altrove, sospinto dall’impulso di fantasticare intorno alla “casa madre” del colore. Nulla ha fermato le possibilità di inventare metafore e astrazioni per raccontare storie legate alle metamorfosi dello spazio, dagli sfioramenti dell’infinito romantico alle atmosfere del paesaggio primordiale.
Vicentini sommuove senza pausa i perimetri e le misure percepite, immagina spiazzamenti di luoghi circoscritti, piazze e dimore dello sguardo infranto, segni disseminati in tanti modi, colori balenanti tra vapori. Superando gli ostacoli del fare, l’artista costruisce paraventi per proteggere l’aria dei ricordi, raccoglie il vento all’interno delle forme, disegna carte per fissare istanti che il segno graffia mutevole e impulsivo.
Non ci sono limiti alla perpetua mobilità della pittura, sottili e sconfinate sono le congiunzioni tra le immagini, flessibili i contorni delle linee, rapinosi i dettagli con cui il pittore sonda le alterità lontane del paesaggio, terre nascoste e terre emerse, terre promesse e magici orizzonti.
Oltre alla definizione sfuggente dei perimetri, conta la collocazione ambientale delle superfici, la calibrata successione delle forme oblique, i perimetri slittanti e appena rialzati, variazioni plastiche che animano la scena di ogni istallazione, la sequenza polifonica di ogni valore cromatico.
La ricerca dell’assoluto – ambizione controversa della pittura lirica e astraente – non è mai per Vicentini legata al mito del sublime, essa si nutre della sostanza inquieta dei pigmenti, degli umori rarefatti dell’inconscio e dei percorsi alterni della mente. In sintonia con i flussi della vita, l’artista ha fame di esplorare il fiato quotidiano delle cose, plaghe indistinte fatte d’aria e d’acqua, liquide consistenze della terra, pozzanghere concrete e fanghi astratti, forme intrise di linfa a profusione.
Al fondo delle sue poetiche illuminazioni sta la memoria attiva del passato, la purezza dei peccati veniali, le amnesie e i vuoti del pensiero, gli errori gravi e gli aromi dell’infanzia, visioni che sovvertono le certezze del linguaggio cercando di svelare nuove aurore. L’apice emotivo della pittura sta nella forza corporea delle forme, nel passaggio dai segni acuti ai morbidi contrappunti del colore, enigma circolare delle cose.
Del resto, Vicentini sa che c’è sempre qualcosa di inspiegabile nel rapporto tra ciò che la pittura rivela e ciò che resta nascosto, incompiuto, non detto, infatti l’immagine più veritiera è quella che sta sospesa come un castello in aria, lieve architettura di segni librati sull’abisso della conoscenza.
Di fronte a queste ragioni ambivalenti non ci sono soluzioni e garanzie possibili, tanto vale costruire nuovi sogni per sopravvivere alla omologazione dei significati. Così l’artista somiglia sempre più alla figura del funambolo che rischia sulla pelle delle apparizioni, si tiene in bilico tra opposte estremità, tra superfici ondulate e traiettorie volanti, supporti di legno e ferri modulati, lamiere, acciai, plastiche, cartoni vegetali.
Visioni cosmiche e geografie interiori s'irradiano attraverso scintille di vitalità, energie inafferrabili che si diffondono dalla superficie all’ambiente seguendo tagli prospettici e dilatazioni dello spazio preliminare.
Pittura e scultura dialogano tra superficie e profondità, volumi a tutto tondo e solidi contorni, materie tattili e orizzonti virtuali, mai escludendo reciproci sconfinamenti, dispersioni, allusioni ad altre soglie immaginative.
Nel ciclo “colore puro” l’immagine rafforza il fuoco della luce attraverso due “polifoil” sovrapposti, elogio della trasparenza in cui il pigmento è plasmato con lievi pressioni sulla pellicola, densa fluidità del colore che inventa percorsi giocati sulla necessità del caso.
Questi fogli di puro colore sono pagine di un libro mai finito, un poema che -per un cantore dell’effimero durevole come Vicentini- può essere considerato un omaggio alla visione eterna del tempo che passa, celebrazione dello scorrere provvisorio delle idee incarnate dalla pittura.
Il massimo grado di estensione è rappresentato da un grande stendardo di che aleggia sontuoso nel vuoto, segnale di comunicazione collettiva attraverso la pulsazione soggettiva del colore. D’altro lato, questa sensazione espansiva si racchiude nell’immagine arcaica di una palafitta artificiale, dimora immaginaria dell’uomo in conflitto tra natura e tecnologia, modulo spaziale dove colonne di perspex e superfici di polifoil galleggiano nel vuoto tra vampate di luce e contrasti d’ombra.
Alcune incursioni nei territori del sacro portano Vicentini a interpretare l’icona della croce in chiave plastica, senza referenze religiose, simbolo innato di trasformazione spirituale che si dirama ai confini dell’essere. “Dolce martirio della pittura”, così l’artista ama definire il tormento del continuo cercare il colore oltre sè stesso, immaginando istanti di libertà che nessun metodo può prevedere, apparizioni di mondi irriducibili ai puri meccanismi dello stile. In questo senso, non v’è mai pretesa di teorizzare il cammino del pensiero pittorico, ogni atto si concentra nel respiro del colore e nei magnetismi tra spazi disseminati, lontani ma non estranei agli astratti fuori con cui la pittura esprime il suo evento irreversibile.
Nel recente ciclo “colore crudo” l’atto di levare è necessario per dare peso al vuoto, per fissare la verità dell’essenza cromatica, per mostrare senza pentimenti la cruda leggerezza della pellicola dipinta, la cangianza delle forme che si trasmutano all’infinito, proiettandosi oltre quei perimetri che Vicentini supera ogni volta e ogni volta ha necessità di definire.