Sghignazzata ma anche risolino e fremito indignato tra sé e sé (“cadrà pure il sasso giù dal Monte Mondonico su questa scuola”! ed infatti alla fine…) echeggia tra queste deliziose ed (in parte) ironiche pagine di un diario immaginario di sette giorni, di una settimana ossessionata durante la quale Giorgio Vicentini, l’artista, vive un’odissea quotidiana giorno per giorno ripetitiva in tutto, salvo che negli Errori Gravi. Cioè, salvo che in quell’incipit del ricordo che fonda l’assurdo ciclo di opere e questo suo libro (ma esiste veramente? - mi chiedo -poiché io ho in mano un originale disegnato mentre da lui immaginato), incipit consistente in quella cancellatura violenta e voluttuosa a matita rossa per molti versi indimenticabile di un’infanzia scolastica: Errori Gravi! Appunto.
Ogni giorno sette tipi di opere (ERRORI GRAVI, ICONE EMOTIVE, CASTELLI IN ARIA, PIAZZE DEGLI ALIBI, AVVISTAMENTI AROMATICI, PARLATORIO, FANGHI ASTRATTI), ma solo gli Errori Gravi hanno il seguito didascalico ogni volta variante: non inventare - fai sempre di testa tua – non ti capisco – inspiegabile – fuori tema – hai oltrepassato ogni limite – lo dirò a tuo padre. Il ricordo certo si complica, in questi suoi permanenti ordini contradditori, che tuttavia ben si combinano – nel loro frullargli ancora per la mente – con l’arbitrarietà delle associazioni segnico-iconico-materiche che rimescolano mondi (naturale, animale, vegetale, artificiale), sensi (la testa, da testa e sasso a masso: declivio da sito di rotolamento del sasso umano a “postura umana leggermente e dolcemente reclinata”), moti psichici “la testa come masso “mistero” (pensiero profondo) “la morena come linguaggio (fluttuazione, frana, debolezza)”.
Di tutte queste arbitrarie metamorfosi o catene di sensi, mi colpiscono oltre alla identità slittante corposasso, quella ultima di fangocosa/fangoparola con la parola / cosa: “astrazione” (associazione ironica, slittamento sorridente!). Anche perché mi riporta a pagine indimenticabili di Giorgio Manganelli: dalle interviste impossibili (a Gaudì “G (…)
Che differenza intercorre tra una giarrettiera e un architrave? Dopotutto sono entrambe di carne. M. Di carne? G. Certo, certo, carne; non intendo dire che alludono alla carne, ma che sono appunto carne: altrimenti, perché avrei rischiato di dannarmi per un amore impuro per un portale, perché avrei dato appuntamenti in luoghi equivoci a maniglie e a portaombrelli, perché avrei scritto proposte, di cui tuttora arrossisco a soffitti, aggetti, balconi, perché avrei passato notti di impura insonnia in omaggio a un camino?
Carne amico mio, carne malattia, impurità, morte. Peccati di carne, peccati di pietra, quando la tua carne non aderisce più al tuo peccare…”), o La notte (dalla parte seconda La valle inesatta, Adelphi): “Mi vien naturale supporre che la valle si attenda da me un atteggiamento congruo ed io, protagonista, eroe codardo, di codesto palcoscenico roccioso, mi acconcio: obbedisco (…) Non raramente, anzi spesso, la valle gioca a metà del mio monologo tragico. Le nubi si smarriscono – anzi si sono già smarrite – e mi trovo in una bella pianura con greggi, un luogo arcadico e anticamente amico: e mio vien l’animo di tentare di trar melodia dal flauto povero della mia anima, e già mi scordo la vendetta che andavo elaboratamente macchinando”. A sigillo della settimana Biblica/joyceiana ed ormai franante, i Fanghi Astratti, appena un’ondulazione a rilievo. Sull’orizzonte.