Del piccolo gruppo di artisti che tra Milano e dintorni lavorano quasi esclusivamente sul colore, identificando la pittura sopratutto con la dimensione della luce e dello spazio cromatico (e potremmo citare il venenziano, ma milanese d'adozione, Marco Rotelli, e ancora Paolo Iacchetti e Italo Bressan) Giorgio Vicentini è senz'altro l'artista più sobrio, più contratto e più castigato, in una parola il più lombardo.
Il suo colore non si concede né ornamenti né decoratività, e si esprime piuttosto nelle gamme più ombrose, nei toni più introversi (sia pure con qualche eccezione che, appunto conferma la regola).
Perché, ci si protrebbe chiedere, questa pittura rinuncia non solo alla figura, ma anche agli elementi astratti più immediatamente individuabili? Perché tanto rigore e ascetismo, in un mondo come il nostro che è il luogo del pressappoco e della superficie?
Siamo di fronte, in realtà, a un minimalismo cromatico (erede delle grandi esperienze degli anni Settanta) che chiede alla pittura non di farci vedere, ma di farci intravedere. Vicentini insomma concentra le sue ricerche su quell'attimo immediatamente precedente alla visione in cui le cose non hanno ancora preso forma, le parole sono ancora allo stato di suono, i pensieri allo stato di intuizione.
Deriva qui la sua suggestiva indecidibilità dei suo lavori, sia anche quel senso di vitalità che comunque racchiudono.
Si potrebbe pensare ad Ad Reinhardt, come padre ideale di queste opere, ma sarebbe un fraintendimento. L'artista americano infatti riflette sul nulla, ritorna al grado zero della realtà per esprimere un sentimento sordo, lucidamente nichilista dell'universo.
Anche Vicentini riflette sul "grado zero" degli eventi. Ma lui lo zero è il numero che precede l'unità, è il numero metafisicamente più fecondo, quello che può trasformarsi e sta per trasformarsi in ogni cosa.
Per questo nei suoi lavori, accanto a una malinconia settentrionale, si riscontra una sentimento di attesa e perfino di stupore, una condizione incessante di nascita.
Come se Vicentini continuasse a ripetersi, ma con trattenuta felicità, la domanda che per Heidegger è il fondamento di ogni filosofia: "Perché l'essere piuttosto che il nulla?