Un’ampia antologica ripercorre le tappe del suo lungo cammino d’artista, preoccupato e ammaliato dalla ‘fragilità sincera’ del Vecchio Continente
Il bel museo di Arte Contemporanea fondato da Vittorio Parisi sulle sponde del Verbano, a cavallo del torrente Giona, accoglie fino al 10 gennaio un’ampia antologica dell’artista varesino, curata da Clara Castaldo, dal titolo ‘Fondamenta occidentali’.
Formatosi in ambito concettuale, ora interprete di un linguaggio autonomo basato sul colore, insegnante da anni, pittore e scultore vulcanico e poliedrico, lavora con i più disparati materiali: carta, legno, celluloide e altro. Si è meritato nel tempo l’attenzione di critici come Paolo Biscottini, Claudio Cerritelli, Flaminio Gualdoni, Guido Ballo, Martina Corgnati e molti altri. Guarda ad Anish Kapoor, artista indiano Maestro degli Opposti, con massima ammirazione.
Suoi importanti lavori sono presenti in musei nazionali e internazionali.
Non potrebbe esserci luogo più adatto del museo di Maccagno per ospitare le nitide opere di Vicentini, ora sinuose e ammiccanti, ora misticamente blindate agli sguardi curiosi di quanti vorrebbero rubarne il grumo di mistero che, racconta l’artista, ogni buona opera custodisce in sé. Ma, come in una cassaforte, la combinazione per entrare è nota solo a chi sa.
Perché questo curioso titolo, Fondamenta Occidentali?
Perché è una riflessione sulla mia persona ma soprattutto sulle mie radici, forti e deboli insieme. Sono un figlio dell’Europa, e ne custodisco in me gli umori, i difetti e le qualità di uomo che in questo grande perimetro vive. Mi appartengono, per nascita, l’impronta della sua cultura ancestrale, la sua antica solidità, ma anche le fragilità e i dubbi. Questo titolo lascia intendere, accanto alla volitività e all’entusiasmo, le difficoltà del Continente in cui viviamo.
Penso a Venezia, è l’esempio più calzante e luminoso della nostra fragilità, tanta cultura e imponente bellezza minacciate, sempre di più, dai capricci delle maree e dall’incuria umana… Eppure la Serenissima, nonostante l’incertezza delle fondamenta deboli, si regge. Forte della sua fragilità sincera.
Nel presentare la tua mostra il giorno dell’inaugurazione, nel gioco affabulatorio dell’Editto di Pino e Veddasca, hai detto “49 anni di pittura sono una infinità di tempo, ma vi assicuro che non mi sono mai e poi mai voltato indietro a cercarmi”. Cosa intendi?
La mostra segue un itinerario che va dalle opere del 2013 del ciclo di Colore Crudo, alle recentissime di Atelier giungla, Arazzi volanti e Quaderni di Tokyo del 2019-2020, altri fondamentali cicli.
E’ un breve periodo rispetto al lungo cammino della mia ricerca, nella quale, tra opera e opera, tra un ciclo e l’altro di lavori, ho maturato la consapevolezza di aver fatto la scelta giusta, di essere un artista. E se non mi sono mai guardato indietro è perché- questo intendo- ho sempre avuto la coscienza di sapere dove mi trovavo, conscio delle mie capacità e dei miei limiti. Ho vanità normali e continua voglia di imparare. Mi sorregge il desiderio dello stupore, di fare cose nuove. Lavoro e non aspetto l’ispirazione, mi è indispensabile seguire l’idea che ho in testa. Continuo a farlo da sempre, nel silenzio e nella luce del mio affollato e luminoso atelier di Induno Olona. Una mia nipote ha chiesto un giorno: il nonno è nato nello studio?
E proprio alla tua grande famiglia hai dedicato la mostra, spiegando che sono loro, i tuoi tre figli, Luca, Viola, Pietro, tua moglie Marta, le nipotine Bianca e Diana a sopportare quello che definisci “il mio istinto brutale, le mie esagerazioni e le mie malinconie”.
Salta fuori il discorso del figlio unico che sono e mi sono sentito, quasi colpevolmente, fin da bambino.
In questo percorso di Maccagno, predisposto con grande maestria da Giorgio Bianchi, che ha reso la mia ricerca una favola nitida, narrabile, cioè autentica, ci sono opere che sfiorano le corde della mia malinconia, come nei Quaderni di Tokyo. Ma anche esagerazioni d’artista- lascio al visitatore di individuarle- e un ‘istinto brutale’, appunto quello intemperante dei bambini.‘ Colore crudo’ è altamente significativo di una rappresentazione ed esemplificazione del mio rapporto tecnico–artistico col colore, ma è anche una autolettura introspettiva dei miei umori bizzarri di creatura umana.
A proposito di quanto hai appena detto, Claudio Cerritelli evidenzia che questa antologica rivela “una cultura arte e spirito”, e Paolo Biscottini “una pittura che aspira all’assoluto ( colore crudo), ma si nutre di storie e sottintende gesti infiniti, quelli del pittore ma anche dell’uomo che vive di intensa quotidianità”.
Raccontaci ora da dove è cominciato il tuo lungo percorso.
Ho iniziato poco più che ventenne, durante il servizio militare. Mi sono trovato con una matita tra le mani e da lì è partito tutto.
Avevo appena interrotto gli studi di giurisprudenza a Milano dopo un buon esame di criminologia, in cui mi ero quasi divertito. Alla fine dell’esame il docente mi spiegò che non sarebbe stato lo stesso con altre discipline molto noiose. Avrei dovuto scegliere altro, suggerì, per assecondare quelle curiosità che aveva da subito intravisto in me. Ho seguito il saggio consiglio e oggi posso dire che lui è stato il mio primo maestro. Mi ha indicato la strada. Ho cominciato da subito e non ho più smesso.
La parola per te è importante, i titoli delle tue opere sono sempre particolari. Ne cito alcuni: Cassaforte, La legge del colore, Matematica dell’Onda, Passwords, Aria concreta, Protocollo Occidentale. E tanto altro
La parola, il logos, è importante, perché viene prima di tutto. Nella parola sta l’idea che muove l’atto creativo. I nomi delle opere, che molto incuriosiscono i visitatori delle mie mostre, lo sottolineano.
Insegni anche all’Università Cattolica dal 2005 e segui corsi per giovanissimi, ad esempio al Lac di Lugano.
Si, io sto molto coi giovani, imparo da loro. Dicono cose meravigliose e cose ‘sbagliate’, che a volte sono le più utili. Così posso trasmettere quello che oramai so e riceverne in cambio tanta sapiente freschezza. Attualmente seguo diciotto ragazze alla Cattolica, per un Laboratorio d’arte.
Ma mi piace soprattutto stare coi bambini, l’ho fatto da sempre per lavoro, oltre che con i miei figli quando erano piccoli. E ora lo faccio con le nipotine.
Con i bambini si instaura un rapporto magico. Bianca, per i miei 69 anni, ha dipinto nonno Giorgio e una bambina che lo tiene per mano, lo aiuta. I bambini, è proprio così, sanno aiutare i nonni.
Con il Covid cosa è cambiato per il tuo lavoro ?
Ho avvertito in generale una sottolineatura della solitudine, anche se gli artisti sono abituati a confrontarsi col silenzio, chiusi nei loro studi. Ho poi trovato una positività, anche nel momento del lockdown, parola che peraltro non mi piace. In quei mesi ho lavorato in serenità, senza distrazioni. Mi sentivo protetto e ho potuto guardarmi dentro con più attenzione. Diverse delle opere inedite portate al museo Parisi- Valle sono state fatte in quel periodo. Figlie del silenzio e di un tempo lento, che mi ha fatto molto riflettere.