Giorgio Vicentini ha superato da tempo l’astrazione e l’impossibile ritorno ad una visione dal vero, si è immerso nella ricerca di “un altro da sé” pittorico, che riflettesse la sua esuberanza creativa e dubbiosa e nel contempo esprimesse l’esigenza di un equilibrio formale meditato ed esterno da sè. Le sue opere rimangono, comunque, inconfondibili.
Oggi sale al Castello di Masnago (dove già si conservano sue opere) e ne riempie gli spazi con ironia pensosa.
Varese, la città dove è nato, gli rende omaggio per i suoi campi di colore/luce, che spesso assumono l’aspetto di lacerti di cielo. C’è qualcosa di oltre in ogni sua opera, rubato all’infinito, che si rivela nel contrasto creato dal raffinato gioco di contrappunti: lo spazio finito campito in colore densi, luminosi, quasi laccati, che riflettono e assorbono la luce, un silenzio accorto che obbliga a cercare le variazioni tonali, i graffi, le gocce, le emersioni liquide di tinte cangianti, le tracce di pennello, le anomalie delle cornici, che talvolta sono dolcemente ondulate.
Un altro aspetto che colpisce il profano è il legame del colore con la terra, che può essere deserto, acqua, liquidità trasparente, la luce nelle sue varietà metereologiche.
Il colore che cattura e il pensiero dietro il colore, la ricerca di un’oggettività vibrante. Le sue variazioni tonali riportano alla memoria l’oriente. L’infinita possibilità di variare i toni, i campi colorati, le serie di combinazioni spaziali, come in musica. E in questo consiste il gioco divertito, paziente, scalpitante di un ricercatore di combinazioni infinite.