"Ho cominciato a vivere realmente solo grazie a Luca"
Da "Sonde" a "Pozzanghere di fine secolo", le tappe più importanti di un itinerario artistico congrassegnato da una continua ricerca.
Scorrendo la biografia nel catalogo d'una delle sue ultime mostre, si scopre che la data per lui più importante è il 1978, anno della nascita di Luca,il figlio che mi descrive, con accenti di tenerezza, forte e fragile, romantico e pragmatico. Potrebbe sembrare un vezzo di padre, o d'artista, se non fosse che anche durante il nostro incontro il discorso su Luca, il figlio di Giorgio Vicentini, pittore varesino classe 1951, torna e ritorna più volte nel corso della conversazione. Perché dice l'artista, con suo figlio ha cominciato a vivere, riscoprendo anche in sé il bambino che si porta appresso e dal quale non gli riesce di staccarsi.
Forse il fanciullino che ha dentro è quello che gli procura ancora qualche imbarazzo quando accende la sigaretta in presenza dell'anziano genitore. Ed è lo stesso che gli domanda di instaurare con le sue creature, i quadri, un rapporto paterno, tanto che me li mostra e li elenca, presentandoli così: "Lui si chiama "Fertile"...è padre del "Sale"...e "Somatica" ha generato "I muscoli delle lettere".
Non è facile "attraversare" per usare il nome di un'altra delle sue opere, questo artista che dipinge da vent'anni su tavole dalle dimensioni diverse, realizzate nei materiali più vari, facendo uso di colori cupi. E perché l'operazione riuscisse mi pareva dovessi lasciare che fosse lui a autointervistarsi. Non userò le virgolette questa volta, pensavo mentre si raccontava in un parlar sciolto, la rada aureola di capelli scarmigliata e traballante, sincero, trasparente, determinato a svelarsi fino in fondo e imbrattato di colore, dalla casacca fino alle scarpe, nella tenuta di lavoro in cui l'ho sorpreso nel suo studio di via Rucellai, a pochi passi dal centro. Meglio allora scovare le domande tra le sue risposte, meglio non interrompere il filo di un lunghissimo racconto in cui ogni parola ha per il mio interlocutore un peso molto importante, come dimostra anche la cura che lui mette nel titolare le sue opere.
Un po’ gli piace giocare con le parole come con i pennelli, soprattutto ne ha bisogno, per esorcizzare i pensieri, per compiere quell'opera di scandaglio che lo fa girare negli abissi dei suoi immaginifici oceani. Vicentini, insomma, o la geografia dell'anima, dove gli piace andare a zonzo, pellegrino di deserti e di fondali oceanici, che lui traduce in colori scuri e sovrapposti, in stratificazioni dal sapore antico, primordiale, che rimandano a un tempo indefinito. Mi sento un minatore, rivela infatti, di quelli che vanno piccoli e armati d'una sola lucina in un tunnel buio. E non ha paura, o forse non ne ha quasi più, di doversi adattare alla asperità del terreno, di isolarsi e sporcarsi.
Le opere di Vicentini, soprattutto le prime, quelle che ha chiamato "Sonde", sono pale d'ombra con solo qualche barlume di luce, la stessa che emerge invece negli ultimi lavori con più prepotenza e necessità.
Come nelle "Pozzanghere di fine secolo" dove si specchiano spicchi di cielo. Mi fanno pensare, queste macchie di luce, a un racconto di Pirandello e alle sensazioni del suo protagonista Ciàula, il minatore bambino, che scopre il faccione della luna mentre risale di notte dal fondo del pozzo in cui lavora da troppo tempo; la gran macchia di luce s'allarga dal cielo investendo ogni cosa, avvolgendo Ciàula d'una veste più bionda e chiara di quella del giorno.
"La pittura è una stupenda devianza" dice Vicentini versando succo di mela in due piccole coppe di cristallo; una malattia bellissima di cui cominciò ad avvertire i primi sintomi durante il servizio militare. A Mondovì ebbe la fortuna di incontrare un maresciallo intelligente. Il Maresciallo, che di cognome faceva Pepe, gli diede la possibilità di sistemarsi con pennelli e colori in un magazzino di vestiario. Durante le pause, Vicentini poteva dedicarsi alla sua più grande passione, diventata poi la ragione della sua vita.
Così, assolto il servizio militare, il diplomato ragioniere, e futuro avvocato nelle mire della famiglia, deludendo le attese parentali lascia l'università e sposa fino in fondo la sua necessaria devianza. Non ha dunque seguito, il mio intervistato, i regolari, canonici studi d'arte; ma rifiuta "l'etichetta di autodidatta, perchè l'autodidatta non esiste" e le lezioni degli altri, dei grandi che hanno guidato la storia della pittura, hanno comunque tracciato la strada per tutti, tutti coloro naturalmente che la vogliono seguire e ne sono in grado.
Confessa un'attenzione particolare per i dissidenti russi, un amore sentito per Serge Poliakoff; ci sono dei libri su di lui, negli scaffali dello studio, tra i molti cataloghi e opere che ogni tanto va a prendere e mi mostra per accompagnare l'esempio alle parole.
Lo studio di Vicentini ha un angolo di pavimento schizzato di vernice d'ogni colore e una mezza parete schiaffeggiata dalle tracce del pennello, che lui usa ripulire sul muro. Per Giorgio parlano anche le opere appese alle pareti delle due stanze dell'atelier, o appaggiate qua e là, o ancora sistemate nella vecchia casa liberty a un passo dallo studio e nello stesso giardino verdeggiante di periferia che condivide con Luca. Sulla parete in fondo allo studio è "Il Sale", un parallelepipedo dalle trasparenze color cobalto che fa pensare a un fondale marino; lo percorrono onde di vento, di acqua, lo scompigliano in silenzio moti di luce, palpiti di spirito.
E sulle scale di casa orecchiano i suoi enormi "Ascoltami", dischi di legno appesi e concavi che lanciano silenziosi messaggi allarmati, ripetitori, mi sembrano, per le frequenze dell'anima. Gli ultimi pannelli, "Pozzanghere di fine secolo", hanno colori nuovi: pompeiani li definisce lui, e qualche squarcio qua e là nella materia rivela idee di figurazione sullo sfondo. Il cammino di Vicentini va dunque avanti. E le ultime mostre alle quali ha partecipato, alla Permanente di Milano - tra i "Sette giovani artisti" - al Castello di Sartirana Lomellina, al Museo Butti di Viggiù, ne sono conferma.
Il discorso torna nuovamente su Luca. Non vorrebbe in futuro vederlo alle prese con il suo mestiere? Vicentini non è sicuro di desiderare che un domani suo figlio lo scelga. Mi confessa: "Non vorrei dovesse pagare il prezzo che ho pagato io". Anche perché spiega, l'artista è necessariamente portato a isolarsi, dev'essere un poco egoista, e così si finisce per isolarsi, per allontanarsi dagli altri, si perdono anche le amicizie; e può essere questo che fa male, più dei sacrifici, che a lui non pesano.
Ma la camera di Luca è tapezzata di disegni; sopra al letto, tra i primi lavori, un collage con su certe nuvolette gonfie di bambagia dipinta di celeste. E ci sono anche tanti lavori fatti a quattro mani da padre e figlio, come "Notte di San Lorenzo"; che è il frutto poetico e pittorico d'una lunghissima osservazione siderale d'una notte di mezza estate...quella che Luca e papà Giorgio si sdraiano su di un prato zitti zitti a pancia all'insù, al Sacro Monte di Varese per vedere le stelle cadenti. E ne videro davvero tante, come mai avrebbero creduto. Non è difficile immaginare che il papà pittore abbia potuto incantare il bambino; del resto Giorgio Vicentini ha sempre amato insegnare disegno ai bambini, l'ha fatto più volte. Ora gli manca il tempo, ma con i bambini è bellissimo mi dice, con loro non si può barare, lo capiscono prima degli adulti se li inganni, perché sanno compiere molto bene quella operazione indispesabile per capire l'arte, che è il tradurre. Fuori il cielo è azzurro. La finestra d'una delle camere della vecchia casa è spalancata, dà sul giardino; da lì Vicentini mi mostra sul terreno brullo le piccole pozzanghere tondeggianti che gli hanno ispirato le sue ultime opere, le " Pozzanghere di fine secolo".
Dentro si specchiano i rami delle betulle e spicchi di nuvole in corsa. Le cerco in alto : sono davvero celesti e rigonfie , proprio come quelle di bambagia sopra il letto di Luca.