Impalpabilità della pittura. È la qualità che mi viene in mente pensando a
Giorgio Vicentini. Nei titoli attribuiti alle sue opere, attraverso i quali vuole evidenziare
aspetti del non-visibile che sono intrinseci al suo modo di stendere il colore
fino a generare impercettibili stratificazioni che rendono indistinto il tessuto
cromatico e formale, si ripercuote un carattere che gli è proprio, cioè quello di creare
una pittura che non descrive, non afferma, non definisce forme, ma è in sé corpo
e spirito. Corpo in quanto con essa cerca di dare una sostanza fisica al colore, in
primo luogo nel renderlo aderente ai volumi irregolari che si è inventato come
spazi e superfici per uscire dal quadro tradizionale. Spirito per come, attraverso la
pittura, si rivolge a un piano non materiale, che è piuttosto di pensiero, di sensazioni,
di emozioni, di memoria. Tra le sue operazioni più significative credo stiano
quelle “sonde” (mi sembra fosse il termine da lui usato), strette tavole delle dimensioni
della sua altezza, come fossero tanti alter ego del loro autore mediante colore;
i diversi volumi che aveva disposto in una mostra in Francia che si riferivano,
come fossero tombe, a grandi pittori del passato; o ancora altre sue opere di realizzazione
più recente, nelle quali il rapporto di luce e ombra interna all’atto del
dipingere, alla strutturazione dello spazio, al confronto con il colore più deciso che
fa “quasi” da cornice, è giunto a un nuovo grado di saturazione, con una capacità
tecnica piuttosto raffinata e possibilità di variazione delle soluzioni. Tra queste un
gusto quasi “bizantino” affiora nella preziosità dei colori, quasi naturale conseguenza
di una sua disposizione verso quella materia trasformata.